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" Aprire gli occhi al popolo": Ciccio Busacca, utopia di un cantastorie

di Livio Marchese

Articolo tratto da SCORCI rivista siciliana di varia umanità -  anno III numero 6, dicembre 2023 scorcirivista@gmail.com

 

Ringraziamo l'autore e la redazione di "Scorci" per l'autorizzazione alla pubblicazione

«Aprire gli occhi al popolo»:

Ciccio Busacca, utopia di un cantastorie [1]

 

         Avvicinàti amici, c’è Busacca...

 

Fatti cunvintu, populu affamatu,

svigghjiti ‘n tempu, curri e datti aiutu

svigghjiti, surfataru sfurtunatu

svigghjiti, cuntadinu schilitrutu

ca quannu tutti saremu svigghiati

putemu aviri paci e libirtati[2].

 

Io i ricchi li ho sempre odiati.

Li odio da quando avevo due anni,

per me, è un fatto istintivo.

Minchia, ho sempre avuto fame[3].

 

 

Da bambino amavo fare lunghe passeggiate con mio padre per le campagne ragalnesi e ascoltarlo raccontare storie e leggende, memorie familiari e collettive di Paternò. Il repertorio andava dai piccoli fumirara scalzi che s’accapigliavano per un pezzo di sterco da rivendere come concime, al Cavallo Senza Testa che appariva a mezzanotte nella strata ritta terrorizzando il malcapitato viandante; dai film di cavaddi nei cinema all’aperto in cui si riversavano torme di murrumazzi vocianti, alle comiche di “Sciarlò” accompagnate dal pianoforte di suo padre Silvestro o del “maestro” Miciu, lo zio; dal bombardamento di Paternò osservato da sfollato dalla terrazza del nunno a Ragalna, al misterioso furriolo del bisnonno Antonino. Ma la storia che più m’impressionava era quella della crozza che il nonno Silvestro aveva trovato chissà dove e adagiato su un tavolaccio all’interno dello stazzuni, la fornace dove modellava e cuoceva orci e brocche, coppi e pignatte. Le era stata negata una degna sepoltura ma l’attendeva un destino ancor più impietoso: scomparve sotto le bombe alleate che fecero a pezzi anche il contrabbasso e la bicicletta Bianchi del nonno.

E poi c’era la storia di Ciccio Busacca, il cantastorie che andava in giro per le piazze della Sicilia facendo dono della sua arte a tutti coloro che accorrevano ad ascoltarlo.

Questa è la sua storia.

 

1.      Dallo stazzuni alla piazza

Anche Cicciu era uno stazzunaru e nella fornace si spezzava la schiena dalle sedici alle diciotto ore al giorno. Solo d’estate però, da aprile a settembre, mentre in inverno andava a bucarsi le mani con gli spini d’arancio nei giardini dei padroni dove faceva il bracciante per poche lire. Erano cinque fratelli maschi e una femmina – lui, il secondogenito – e fin dall’infanzia si erano dovuti rimboccar le maniche per aiutare la famiglia.

È sempre in tenera età che Busacca, nato il 15 febbraio del 1925, matura «la malattia» [4] per i cantastorie. In una società premoderna, come quella dei paesi siciliani di allora, l’arrivo del cantastorie era una festa che rompeva una quotidianità fatta di privazioni e soprusi, consentendo a masse di contadini, artigiani e manovali analfabeti un’evasione poetico-sentimentale, rappresentando al contempo un importante momento di acquisizione e scambio d’informazioni, incontro e condivisione. Crescendo, per diletto – suo e dei pochi a cui le fa sentire – compone qualche breve storia, che recita a memoria perché analfabeta. Finché nel ‘51, a Raddusa, viene a sapere di un tragico fatto di sangue: una ragazza, per “lavarsi” l’onore dalla violenza subita dal “padrone” del marito ed essere riammessa in famiglia, aveva ucciso a pistolettate il suo carnefice, per consegnarsi infine ai carabinieri. L’assassinio di Raddusa, in trentatré sestine di endecasillabi a rima ‘ncruccata[5], la forma metrica più praticata dai cantastorie siciliani del dopoguerra, è la prima vera storia composta da Busacca. Un giorno la fa ascoltare a Gaetano Grasso, decano della “scuola” paternese, che gli suggerisce di metter da parte zapponi e falcetti. Anche Paolo Garofalo, altro importante cantastorie della generazione precedente, è della stessa opinione e lo invita a portarla in giro accompagnato dalla sua chitarra. Ciccio, seppur titubante, accetta. Il debutto avviene l’8 settembre del ‘51.

 

La prima piazza è stata San Cataldo, provincia di Caltanissetta. In un’ora e un quarto di lavoro abbiamo incassato 18.000 lire. Paolo, quando ha visto tutti quei soldi, si mise le mani nei capelli: «Madooonna, quanti soldi! Io tanti soldi messi insieme non li ho visti mai! Siamo ricchi, Ciccio!». Paolo però […] incominciò a girare per gli alberghi e i ristoranti più eleganti... un mese di lavoro e tutto il lavoro è rimasto negli alberghi e nei ristoranti. A me mi piangeva il cuore perché fino a un quindici giorni prima zappavo e facevo la fornace, quindi sapevo come si sudavano questi soldi […]. Dopo un mese ho deciso di lasciarlo [6].

 

Poiché Garofalo non gli aveva voluto insegnare a suonare la chitarra, Busacca se ne fa prestare una dal barbiere[7], con la scommessa che se in tre giorni fosse riuscito a impadronirsi dei rudimenti sarebbe stata sua. La passione e l’accanimento sono tali che già l’indomani Cicciu è fornito di strumento proprio (la tecnica strumentale, negli anni a venire, non si affinerà molto rispetto all’apprendimento di quella notte e resterà molto rozza, servendogli, la chitarra, solo come accompagnamento ritmico). Inizialmente la famiglia è all’oscuro del nuovo mestiere. Quando lo scoprono, genitori e fratelli lo cacciano di casa perché quello del cantastorie era considerato un lavoro disonorevole. I cantastorie più rinomati erano spesso orbi o storpi (come Orazio Strano, paralitico, o lo stesso Garofalo, detto “’u Sciancatu”) e avevano cattiva fama. Particolarmente umiliante era considerata l’abitudine di raccogliere le offerte con un piattino, pratica che Busacca rifiuterà sempre, preferendo vendere i foglietti con le storie (che faceva trascrivere) e, più in là, libretti illustrati agli spettatori che potevano permetterselo. Gli altri l’avrebbero ricevuto ugualmente in regalo.

L’atteggiamento dei familiari cambia in seguito alla prima esibizione a Paternò. In piazza lo accompagna solo Nino, il più piccolo tra i fratelli, che lo aiuta a vendere la storia, mentre gli altri occhieggiano a debita distanza. Il successo e l’incasso sono impressionanti. Cicciu porta a casa ben 53.000 lire, tanto da convincere Nino a seguirlo nel mestiere, prima come aiutante, successivamente in proprio[8].

Tra il ’51 e il ’52 i due fratelli percorrono in lungo e in largo le strade della Sicilia con l’obiettivo di “fare un paese al giorno”. Agli inizi si muovono in bicicletta: uno porta l’altoparlante con la chitarra, l’altro la valigia con i foglietti. Poi con la 600 Multipla, stipata di tutta l’attrezzatura, che nelle piazze si trasforma in palco – Ciccio si esibisce in piedi su una pedana montata sul tetto della machinedda – e di notte, in ossequio alla sua etica austera, funge da ostello e refettorio.

 

2.      Il bandito e il cantastorie

L’assassinio di Raddusa è una delle rare storie di Busacca ispirate a un fatto di cronaca. A differenza di Orazio Strano, nella gran parte della sua produzione il paternese preferirà servirsi della fantasia per inventare storie verosimili, più congeniali, secondo lui, a esprimere ciò che gli sta a cuore e a ottenere un più profondo senso tragico [9].

Inizialmente il repertorio tematico appare simile a quello dei cantastorie coevi: storie di amori contrastati dall’infamuni di turno, figli “bastardi” segnati da una sorte ingrata, delitti d’onore, tradimenti, torti e violenze a danno d’innocenti che trovano riscatto solo nella vendetta cruenta… un calderone di figure e situazioni caratteristiche della narrativa d’appendice e dei racconti orali, cucinate in salsa malandrino-rusticana. Le storie di Busacca si distinguono però per l’attenzione rivolta, seppur schematicamente, alla caratterizzazione sociale dei personaggi – l’eroe umiliato e offeso contro il ricco prepotente e sdisonorato –, strettamente correlata al tema della giustizia, puntualmente negata al singolo che, per riequilibrare i bracci della famigerata bilancia, è costretto a provvedere da sé. Una visione del mondo dalla quale trapela una grande sfiducia nei confronti della legge e delle istituzioni. Un ethos popolare che a una sensibilità moderna potrebbe sembrare discutibile, ma che, contestualizzato, appare rivelatore delle conseguenze disastrose esercitate sull’inconscio collettivo siciliano dal ruolo subalterno riservato nei secoli a questa terra di rapina, a causa della persistenza secolare di dinamiche di potere di tipo feudale, delle angherie esercitate da un’aristocrazia parassitaria in combutta con istituzioni corrotte e vessatorie, della repressione brutale di ogni moto collettivo di rivolta e del fallimento di ogni prospettiva di emancipazione.

Il personaggio del “bandito per necessità” rappresentava pertanto il simbolo dell’ansia di riscatto nutrita dalle masse popolari che affollavano le piazze in cui si esibivano i cantastorie. Si trattava del resto di fatti che a quei tempi riempivano le cronache dei quotidiani, considerato l’impressionante numero di bande che guerra e dopoguerra avevano lasciato in eredità al territorio siciliano[10]. In ogni caso Busacca, già allora in qualche modo sensibile al valore “educativo” del mestiere, aveva sentito la necessità di chiudere le sue storie con delle sestine dall’intento moraleggiante, volte a criticare la scelta individualistica di farsi giustizia da sé, per ricondurre tutto nell’alveo della legge.

Tra le prime storie di banditi di Busacca quella più significativa è proprio La storia di Turi Giulianu. Composta un paio d’anni dopo l’uccisione del bandito, condivide con l’appena precedente poemetto scritto da Turiddu Bella per Orazio Strano una visione epico-romantica della vicenda del “re di Montelepre”. Entrambi i cantastorie cantano Giuliano come un eroe popolare costretto al crimine dalla miseria della guerra, una sorta di Robin Hood che rubava ai ricchi per dare ai poveri. Questa rappresentazione del bandito come vendicatore dei puvureddi contribuì notevolmente a mantenere in vita anche negli anni ‘50 quella che Sciascia definirà «la leggenda del bandito cavalleresco, nobile, pietoso[11]». Né Busacca né Strano potevano immaginare di assecondare in tal modo il gioco di quei poteri occulti che negli anni successivi allo sbarco alleato avevano fatto del bandito di Montelepre una pedina essenziale delle trame eversive che garantiranno una segreta continuità tra vecchio regime e nuova democrazia e la dipendenza della penisola italiana dall’orbita atlantica, scongiurando lo spettro di una nuova Rivoluzione d’Ottobre in terra siciliana. Paradossalmente, un cantastorie come Busacca, che traeva la sua ispirazione dall’odio verso i potenti e dall’amore verso la povera gente, si trovò a fare il gioco dei nuovi padroni. Non a caso, l’episodio più emblematico del contributo svolto da Giuliano nella lotta contro il comunismo – la strage di Portella della Ginestra, evento fondativo e peccato originale della Prima Repubblica –, viene da lui evocato in pochi, reticenti versi. Perlomeno nella versione che inciderà su vinile. Negli anni correggerà parzialmente il tiro, proponendo la propria versione della storia di Giuliano nelle piazze, per non deludere le aspettative popolari, e la ben diversa Vera storia di Salvatore Giuliano di Buttitta – affine nella tesi a quella avanzata dal celebre film di Rosi – nei teatri frequentati dalla borghesia intellettuale.

In ogni caso, La storia di Turi Giulianu appare oggi come un racconto appassionante, in cui Busacca dimostra una grande abilità nella costruzione drammaturgica e un’altrettanto notevole capacità affabulatoria, raggiungendo vette d’intensità sconcertanti nel culmine della vicenda, il pianto funebre della matri addulurata, quando il cantastorie giunge a singhiozzare, immedesimandosi nello strazio della donna davanti al corpo esanime del figlio.

 

3.      L’incontro con Buttitta

Nel ‘53 avviene l’incontro che cambierà la vita di Busacca. Turiddu Bella lo accompagna a Bagheria e gli presenta Ignazio Buttitta. Quella sera Busacca, grazie all’intercessione del poeta presso lo stesso commissario che sei mesi prima gli aveva negato il permesso, canta in piazza la storia di Giuliano. Il poeta assiste rapito per oltre due ore all’esibizione del cantastorie. Alla fine, entusiasta, gli propone di collaborare[12].

L’occasione si presenta qualche tempo dopo. Il 16 maggio del ‘55, a Sciara, la mafia, braccio armato dell’aristocrazia feudale, uccide Salvatore Carnevale, il sindacalista socialista che da anni organizzava i braccianti per la lotta contro gli abusi nella spartizione del raccolto da parte dei gabellotti della principessa Notarbartolo. Il fatto desta sdegno e commozione a livello nazionale. Giornalisti, dirigenti e militanti di partiti e sindacati, intellettuali e politici del calibro di Carlo Levi e Sandro Pertini accorrono nel piccolo paese ai piedi delle Madonie. Le parole sono pietre dello scrittore torinese contiene pagine memorabili su quei terribili giorni, narrati con l’afflato lirico e l’incrollabile sentimento etico d’impronta umanista caratteristici della sua prosa[13]. Particolarmente toccante il ritratto di Francesca Serio, la madre di Salvatore, che avrà il coraggio di spezzare le catene dell’omertà per denunciare la mafia al tribunale di Palermo: nel processo, costituitasi parte civile, sarà rappresentata dal futuro Presidente della Repubblica.

Anche Buttitta in quei giorni si reca a Sciara per abbracciare la donna e offrirle la sua solidarietà. Sull’onda dell’emozione, in una sola notte, compone il Lamentu pi Turiddu Carnivali, «una delle pagine più alte della poesia siciliana contemporanea [14]», e lo propone a Busacca.

 

Buttitta […] mi cerca per tutta la Sicilia, per telefono, fino che mi trova. Arrivo a casa di Buttitta. Mi legge i giornali e mi dice: «Se ti faccio una storia su questo fatto, tu me la canti?»

«Certo, a disposizione!».

L’indomani mattina sono andato a trovarlo. «Ciccio», ha detto, «la storia è completa». Me l’ha letta. Quando l’ho sentita sono diventato pazzo, perché era una cosa veramente bella. Un capolavoro[15].

 

Il Lamentu pi Turiddu Carnivali, nell’interpretazione di Busacca, dà i brividi oggi come allora. La voce del cantastorie esprime una forza morale impressionante e una grande compassione, nel senso etimologico del termine: i versi di Buttitta, fondendo magistralmente la dimensione umana della tragedia e quella politico-sociale, gli consentono di esprimere al meglio indignazione e orrore per la Sicilia del feudo e della mafia ma anche partecipazione affettiva alla tragedia dei jurnateri, da lui vissuta in prima persona fino a pochi anni prima. Questa storia rappresenta uno spartiacque nella vicenda umana e artistica di Busacca, che tuttavia non metterà mai da parte il vecchio repertorio e anzi lo arricchirà di nuove storie. L’esito sarà la presa di coscienza del nuovo ruolo socio-culturale che avrebbe dovuto incarnare la figura del cantastorie: non più solo un mestiere finalizzato alla fuga dai campi per un’emancipazione individuale, ma uno strumento di comunicazione nelle piazze di una verità storica e morale nel cammino collettivo verso la costruzione di una nuova società con maggior giustizia sociale. Una prospettiva ideologica utopica e dichiaratamente socialista.

 

4. Busacca in continente

Buttitta introduce Busacca negli ambienti culturali più avanzati del palermitano. Il debutto del Lamento avviene tuttavia a Livorno, nel ’56, al III Congresso della Cultura Popolare. Busacca, intimidito dall’invito di Buttitta, in un primo momento pensa di declinare, ma l’amata Rosa, fonte d’ispirazione di canzoni e poesie, lo convince a partire.

 

A Livorno c’era veramente tutta l’alta cultura d’Italia, da Zavattini a Visconti, da Carlo Levi a Pasolini, dove ho conosciuto anche Roberto Leydi […]. Il congresso l’ho chiuso io con la storia di Turiddu Carnevale. E guarda io ero confuso perché giustamente a Livorno nessuno la poteva capire: l’hanno capita tutti! Il primo è stato Carlo Levi […]. È salito sul palco e m’ha detto «benedetta la mamma che t’ha portato al mondo!» [16]

 

Da quel momento Busacca passa sotto l’ala protettrice dei maggiori intellettuali di sinistra dell’alta Italia e comincia a ottenere i primi ingaggi prestigiosi, come quello al Piccolo Teatro di Milano, che nello stesso anno, sempre per iniziativa di Buttitta, ospita lo spettacolo Pupi e cantastorie di Sicilia e, nel ’58, al Teatro Stabile di Trieste per La rosa di zolfo di Aniante. Arrivano anche i primi riconoscimenti ufficiali. Nel ‘57 con Giuvanni Accetta, l’innucenti vinnicaturi vince la Torre d’Oro al II Convegno Nazionale dei Cantastorie a Gonzaga, organizzato dall’AICA, che gli conferisce il titolo di Trovatore d’Italia [17]. Compare perfino in tv, a «Lascia o raddoppia», dove canta davanti a Mike Bongiorno alcune ottave dell’Ariosto da lui stesso tradotte in siciliano. Entra anche nelle grazie dei Cantacronache, il collettivo torinese di compositori, etnomusicologi e intellettuali vicini al PCI che in quegli anni, ispirati dalle Osservazioni sul folclore gramsciane, nel tentativo di opporsi alla dittatura della canzonetta sentimentale sanremese, sta rivolgendo l’attenzione da una parte agli chansonniers d’Oltralpe e alle composizioni di Weill e Brecht, dall’altra al recupero dei canti popolari italiani di lotta come espressione culturale delle classi subalterne, gettando in tal modo le basi della futura canzone d’autore italiana. Affermava Michele L. Straniero, che dei Cantacronache fu fondatore e teorico insieme a Sergio Liberovici e Fausto Amodei:

 

L’interprete ideale delle canzoni di Cantacronache deve avere i seguenti requisiti: anzitutto non dev’essere soltanto un cantante, ma altresì un personaggio. Abbiamo dinanzi agli occhi esempi positivi e operanti di Georges Brassens, Germaine Montero e dell’insuperabile interprete di Brecht cantato, Busch; tra noi, di Ciccio Busacca, cantastorie siciliano[18].

 

Oltre alle esibizioni nei luoghi della cultura “alta”, Busacca continua a “fare le piazze” e uno stralcio di un’esibizione risalente a quegli anni è ancora oggi disponibile in rete[19]. Questo frammento di appena pochi minuti tratto da Giovanni Accetta appare oggi una testimonianza preziosa dello stile di Busacca, caratterizzato da un’esecuzione veemente, enfatica ma al tempo stesso sobria, mai sopra le righe, in grado di alternare compenetrazione e straniamento, pregna di una drammaticità intensa e solenne, da vero aedo moderno, da gesti e sguardi capaci di magnetizzare l’attenzione di un pubblico composito, suscitandone curiosità e indignazione, orrore e commozione.

 

Io facevo teatro. Io parlavo la madre e loro sentivano parlare la madre. Se parlava il maresciallo, c’era il maresciallo che parlava. C’era la combinazione di voci, c’era tutto… Io piangevo veramente. Non piangevo per arte. Piangevo che lo sentivo. Io Turiddu Carnivali lo vedevo morto! Era una specie di pellicola che mi passava davanti agli occhi. Era un cinema. E il cinema che vedevo io, lo trasmettevo agli altri. Mi ricordo bambini che si pisciavano addosso per non allontanarsi due minuti, bambini che piangevano…[20]

 

5. Turi Scordu, surfararu

Il sodalizio con Buttitta prosegue e s’intensifica [21]. Nel ‘60 Busacca compare perfino in L’Italia non è un paese povero, documentario propagandistico sull’indipendenza energetica voluto da Enrico Mattei e realizzato da Joris Ivens con la collaborazione dei fratelli Taviani e di Valentino Orsini, in seguito censurato da qualche funzionario della RAI timoroso che le sequenze mostranti la terribile miseria di alcuni paesi del Mezzogiorno potessero irritare i ministri della DC. Busacca vi appare nel finale dell’ultimo episodio – Appuntamento a Gela – recitando Hiroshima e altri versi dell’amico poeta, auspicanti un uso pacifico dell’energia nucleare, volto a favorire lo sviluppo industriale. Sono infatti gli anni del miracolo economico. L’Italietta clericale e cripto-fascista degli anni ’50 sembra cedere il passo a istanze di rinnovamento sociale con i governi di centro-sinistra. Amodei compone Per i morti di Reggio Emilia sui fatti del 7 luglio ‘60 e due anni dopo, con gli scontri di piazza Statuto a Torino, nuovi soggetti sociali fanno il loro debutto sulla scena politica del Belpaese. Il boom ha d’altra parte più di un lato oscuro: in primo luogo i milioni di emigranti meridionali costretti a lasciare la propria terra per tentare la fortuna al nord o all’estero. In questo clima, nel ’63, Buttitta dà alle stampe Lu trenu di lu suli, un poemetto in trentanove quartine di ottonari ispirato al disastro di Marcinelle. Un congegno perfetto che alla narrazione patetica caratteristica del canto popolare unisce la tensione ideologica del poeta engagé, senza che la seconda schiacci la prima, anzi supportandola e corroborandola al punto da renderla universale e disgraziatamente attuale. Riletto sessant’anni dopo, l’impressione è di trovarsi di fronte a un saggio sulle migrazioni condensato in pochi versi di grande valenza didattica, molto più eloquenti di tante pubblicazioni specialistiche sul tema. C’è tutto: la descrizione del contesto d’origine e le motivazioni socio-economiche che stanno dietro alla decisione di partire; le aspettative e i timori del viaggio; la solitudine, l’alienazione, lo sradicamento in terra straniera e la nostalgia di casa; lo sgomento per il “nuovo” e la solidarietà tra disperati; l’attesa e le incertezze del domani. Su tutto, una cappa di plumbeo fatalismo e un progressivo senso di morte, infine annunciata attraverso una radiolina a transistor, simbolo di una modernità illusoria e portatrice di sciagure.

Nel tempo chiunque si sia cimentato con il canto popolare ha finito per proporre la propria versione del Trenu di lu suli – le più celebri quelle di Otello Profazio, Vito Santangelo e Nonò Salamone –, ma la vicenda di «Turi Scordu, surfararu / abitanti a Mazzarino» nell’interpretazione di Busacca appare insuperata per pathos emotivo, capacità mimetica e urgenza espressiva. E il suo canto, che durante ogni pubblica esecuzione puntualmente si rompeva per le lacrime che sgorgavano dal profondo del cuore, appare veramente “popolare”, incarnazione del dolore collettivo per quella grande tragedia che accomuna tutti i Sud del mondo. Oggi come allora.

Questo è il periodo di maggior successo per Busacca che conquista centinaia di piazze e teatri in tutt’Italia e anche all’estero, dove si esibisce per un pubblico in larga parte di emigranti che si identifica nelle sue storie.

 

La gente mi capisce perché il mio discorso è anche il loro discorso, la mia rabbia e il mio dolore è anche la loro rabbia e il loro dolore. L’italiano non lo so bene e non m’interessa neanche di saperlo. Non sono mica un intellettuale io. Io dico cose semplici in modo semplice, per questo la gente a Milano come in Germania, in Svizzera e in Belgio, mi capisce[22].

 

In Sicilia mette su anche una piccola impresa familiare, gestendo tre macchine di cantastorie[23] – la sua e quelle dei fratelli Nino e Peppino – che vanno in giro per le piazze a cantare e a vendere le sue storie e i suoi dischi.

 

6. «La mafia puzza, la Sicilia odura»

Negli anni seguenti Busacca adatterà tante altre storie di Buttitta – da I fratelli Cervi a Francisi e taliani, a Lu matrimoniu fallutu – ma la più significativa, quella che condizionerà in maniera irreversibile la sua vita e la sua carriera è Che cosa è la mafia. Tratto da un componimento del ‘61 del poeta baariota, l’adattamento di Busacca del ‘65 è un’invettiva nei confronti di quella che il cantastorie paternese definisce come «la cancrena della Sicilia» e i suoi adepti «razza bastarda». La cantata è difatti una denuncia senz’appello della connivenza tra Stato, Chiesa e Mafia, con l’avallo degli intellettuali di regime e la copertura dei giudici corrotti. Con grande sdegno, Buttitta e Busacca denunciano la Mafia come società di servizi di un potere politico-economico che ha tutto l’interesse nel tenere i siciliani con un piede sul collo «pi fini elitturali e portafogghi». Ne riporto qualche strofa per dare un’idea del tenore delle accuse, decisamente forti per l’epoca:

 

[…]

 

Su’ seculi ca dura sta canzuna

la mafia ‘ngrassa e gunfia li pulmuna

si mudirnizza, allarga li so riti

diventan dirigenti di partiti

diventan dirigenti di partiti.

 

Tutti l’appalti e li cuncissioni

l’avi la mafia e la mafia disponi

la mafia arraffa, impera e fa liggi

lo Statu duna e la mafia siggi

lo Statu duna e la mafia siggi

 

[…]

 

Lu mafiusu quannu ammazza sapi

che currunu in difisa li so capi

li pezzi grossi, l’intellettuali

li complici li veri criminali

li complici li veri criminali.

 

[…]

 

Dici la mafia, si niscemu assolti

megghiu ammazzari e siminari morti

turnamu chiù timuti a li paisi

viva la Mafia e li corti d’Assisi!

viva la Mafia e li corti d’Assisi!

 

[…]

 

Tornanu a li paisi chiù timuti

con festi rivirenzi e con saluti

e ‘nda li piazzi in signu di rispettu

li vidi ca lu sinnacu a braccettu

li vidi ca lu sinnacu e braccettu

 

Monaci e preti pi farisi onuri

amici si ci fannu e cunfissuri

li fannu capi di lu cumitatu

e cunfunnunu a Cristu cu Pilatu

e cunfunnunu a Cristu cu Pilatu

 

[…]

 

Il potentissimo j’accuse ha anche una finalità pratica esplicita: sollecitare «l’inchiesta contro la mafia» avviata qualche anno prima con l’istituzione della prima Commissione parlamentare addetta allo scopo. Nel finale compare anche un riferimento ai morti di Portella della Ginestra che «aspettano la giustizia». Ieri come oggi.

Da quel momento la vita di Busacca in Sicilia diventa sempre più difficile:

 

Poi nel ’67-’68 cominciarono i primi disturbi con la mafia. Terminavo di cantare la storia sulla piazza con la mia macchina, veniva il mafiusu, mi offriva il caffè, mi offriva il liquore e poi mi diceva:

«Ciccio, tu sei un bravissimo cantastorie, però, sai, certe cose in piazza non devi dirle. Tu puoi metterti in pericolo. Da un momento all’altro possono succederti delle disgrazie...»

A questo punto rispondevo sempre con la stessa risposta, ridendo e scherzando: «Mi volete ammazzare come avete fatto con Turiddu Carnevale?»

«Ma no, Ciccio, che cosa dici? Noi ti vogliamo bene, per questo ti stiamo avvertendo. Ma come, con tante canzoni belle che abbiamo in Sicilia, Ciuri ciuri, Si maritau Rosa, Vitti ‘na crozza, devi cantare ‘ste cose? Cantare di mafia, di Turiddu Carnevale, Il treno del sole… ma chi ti ci porta? Cerca di cantare canzuni belle, allegre, di fare divertire il popolo, no?»

«Per me le canzoni importanti sono queste: svegliare il popolo, aprire gli occhi al popolo. Se voi mi volete ammazzare, sapete che non avete concluso niente, perché ci sono sei figli miei che saranno lì a continuare quello che io lascio».

Non mi hanno ammazzato però mi hanno fatto smettere di cantare, negandomi tutti i permessi in tutte le piazze della Sicilia, Puglia e Calabria[24].

 

La situazione diventa insostenibile. Busacca accusa il PCI di non supportarlo, strappa la tessera[25] e decide di lasciare definitivamente la Sicilia. L’allontanamento dalla sua terra, coincidente peraltro con il dolore per l’abbandono da parte dell’amata Rusidda, rappresenta la fine dell’attività di cantastorie in senso stretto. La sua carriera subirà una svolta radicale e negli anni successivi si limiterà a fare qualche piazza solo dietro invito, in occasione di sagre e feste paesane.

 

7. Un giullare terzomondista alla corte di Dario Fo

Dopo un breve soggiorno a Firenze, Busacca si stabilisce in Lombardia. Lì al nord riprende i contatti con una vecchia conoscenza, Dario Fo[26], che già da anni si era avvicinato all’Istituto De Martino e, con la regia dello spettacolo Ci ragiono e canto (1966), aveva dato un importante contributo alla diffusione del fenomeno del folk music revival italiano, lanciando, tra l’altro, la carriera teatrale di Rosa Balistreri (che in Busacca troverà un amico, un partner artistico e un modello professionale). Quando Busacca arriva a Milano, Fo, reduce dal successo di Mistero buffo, aveva appena fondato il Collettivo Teatrale La Comune col quale era impegnato in un teatro militante d’ispirazione agit-prop da mettere in scena nelle piazze, nelle fabbriche, in spazi occupati e autogestiti. Il futuro premio Nobel coglie subito l’occasione di coinvolgere nei suoi spettacoli un personaggio dall’innata teatralità come Busacca, tra le ultime autentiche voci di quella cultura popolare che la concezione gramsciana, sottesa a tutto il fenomeno del folk revival, aveva esaltato in quanto portatrice di valori antagonisti rispetto a quelli dominanti.

La collaborazione tra Fo e Busacca dura circa otto anni. L’esordio avviene il 25 febbraio ‘73 al cinema Rossini di Milano con Ci ragiono e canto 3, uno spettacolo che in chiave “buffa” e attraverso le canzoni intendeva sviluppare «un discorso “di base” sulle origini della lotta di classe e dello sfruttamento, sulla realtà dello sradicamento violento dei contadini dalla loro terra, sulla realtà dell’emigrazione, del lavoro in fabbrica, dell’alienazione, ma anche – e soprattutto – sulla creatività delle masse, sulla loro vittoria strategica[27]». Busacca, ovviamente nei panni di un cantastorie, aveva funzione di cornice all’interno di un canovaccio che includeva anche estratti dal Trenu di lu suli e il Lamentu pi Turiddu Carnivali. Nello stesso anno partecipa a Guerra di popolo in Cile con un paio di recitativi che, riascoltati oggi, appaiono come gli episodi più freschi e trascinanti di uno spettacolo allora indubbiamente dettato da grande urgenza espressiva ma che oggi mostra la patina del tempo: in Murieta el Segundo Busacca dà voce alla testa mozzata di un minatore e sindacalista cileno dei primi del secolo, conficcata dai militari in un lungo palo ed esposta in piazza come monito per gli indios: le parole che essa rivolge alla sua gente parlano di terra e rivoluzione, di sfruttamento coloniale e dell’importanza di studiare a fondo il proprio passato per raggiungere quella coscienza necessaria a cambiare i rapporti di forza tra sfruttatori e sfruttati; la Moralità del Ciucciocorno è invece un apologo alludente al compromesso storico, che racconta di un asino dotato di corno in grado di difendere gli animali più deboli dalla prepotenza di quelli più feroci, dai quali, tuttavia, sarà infine raggirato.  

L’esito più significativo del sodalizio tra Fo e Busacca è però La giullarata (1975), in gran parte costruito intorno al personaggio del cantastorie, per l’occasione accompagnato dalle figlie Concetta e Pina. Nucleo portante è Nascita del giullare, una “conta” già presente in Mistero buffo, ricavata dall’ibridazione tra un testo medievale del ragusano raccolto da Serafino Amabile Guastella e il frammento di un’analoga giullarata proveniente dal cremonese. Qui Fo ha la brillante intuizione di affidare a Busacca un testo che sembra cucito su misura per lui. Un testo apparentemente semplice ma leggibile a più livelli: in primo luogo esso racconta la storia di un povero contadino che, dopo aver visto il frutto del suo duro lavoro e la sua famiglia annientati da padroni, parrini e nutari sucainchiostru, nel momento di maggior sconforto incontra Cristo che, miracolosamente, gli fornisce gli strumenti – le parole e i gesti – per andare in piazza e parlare al popolo; in secondo luogo il testo sembra alludere alla stessa vicenda umana e artistica del paternese, che dopo essere stato per venticinque anni viddanu, stazzunaru, muraturi, carritteri e perfino venditore di manualetti di astrologia scritti dal padre[28], ha sentito l’urgenza viscerale di comunicare qualcosa di importante agli sfruttati come lui, divenendo infine “poeta del popolo”; La giullarata permette inoltre a Busacca di riscoprire le origini della propria vocazione, le quali, senza voler risalire fino a Omero[29], hanno tappa intermedia nei giullari medievali, banditi dalle piazze perché sbeffeggiatori dei ricchi e dei potenti.

Sono gli anni della consacrazione per Busacca: si esibisce al Folkstudio romano, partecipa a programmi radiotelevisivi, incontra gli studenti nelle università, svolge perfino dei laboratori nelle scuole elementari, riuscendo a catturare l’attenzione di un pubblico infantile sempre più avvezzo ad altre forme di spettacolo. Eppure, nonostante i consensi, s’addensano sempre più le ombre della lontana profezia di Antonino Buttitta: «[…] egli comincia a muoversi in quel terreno minato del gusto snob per il colore locale che fa sempre degli aspetti spesso più genuini della cultura popolare la tomba infiorata del popolo e della sua cultura.» [30] Del resto, non mancano le polemiche: Franco Trincale, cantastorie militellese trapiantato a Milano fin dal ‘58 e vicino al movimento operaio, critica la perdita del contatto diretto con le piazze e la predilezione per l’attività teatrale e la televisione[31].

 

8. Fine di un mondo

Sciolta La Comune, superato il giro di boa del 1980, oltre il quale la società italiana muterà irreversibilmente tra affermazione delle televisioni commerciali e edonismo consumista, morte delle ideologie e trionfo del disimpegno, culto del dio Denaro e terziarizzazione, degrado delle istituzioni e corruzione politica, anche per Busacca arrivano gli anni del riflusso, un periodo di disillusione, rabbia repressa, coraggiose rivendicazioni e ambizioni frustrate. Lavora ancora a teatro con Roberto De Simone ne La figlia di Iorio e viene scelto da Lizzani per Fontamara (1980) nel ruolo di Giovanni – il narratore interno del romanzo di Silone – per la sua unica apparizione cinematografica. Poco altro.

Nell’intervista al Cantamille di Torino dell’82, reperibile in rete, appare assorto e scavato in volto, ma con gli occhi luminosi e scintillanti, ancora agguerrito. Orazio Strano era morto da qualche mese e lui si autodefiniva, con orgoglio e malinconia, «l’ultimo cantastorie», insieme al fratello Nino che nei fine settimana, quando non era occupato nella cura del suo aranceto, faceva ancora qualche piazza[32]. Tutto in lui – i tratti del volto, lo sguardo, il tono della voce – comunicava la profonda amarezza di chi è consapevole della fine di un mondo ma ad essa, pur nello sconforto, non vuole arrendersi:

 

Fare il cantastorie oggi per conto proprio, come si faceva una volta, è difficile. A me mi hanno fatto scappare i padroni dalla Sicilia, i preti, i mafiosi. Se magari vorrei tornare in piazza, non posso più tornare perché ci sono tutte ‘ste macchine, tutti ‘sti motorini… è un lavoro che ci vuole la massima concentrazione, il massimo silenzio.

Oggi la gente preferisce la televisione però […] quando la televisione era rara in Sicilia – sto parlando del ’60, ’61, ’62 – una volta hanno lasciato il festival di Sanremo solo nelle case: erano tutti in piazza. Questo l’ho fatto io. Oggi, se c’è qualcuno che si potrebbe interessare a farmi dare una piazza ogni sera, però libera, senza rumori di macchine e senza niente e senza che i signori… io li chiamo sbirri, i marescialli… se mi danno il permesso, io ancora sono capace a guadagnare più di quanto guadagna Celentano vendendo cassette con la storia di Giuliano, dopo trent’anni[33].

 

L’anno successivo, in un documentario autobiografico dedicatogli dalla RAI, dichiarerà con veemenza:

 

Io vorrei, desidero con tutto il cuore tornare nei paesi di tutta la Sicilia, come una volta. Però non per raccontare la storia di Giuliano… perché sono stato quindici anni lontano dalla Sicilia… ritornare in Sicilia per sfogare… raccontari e scarricari quindici anni di rabbia[34]

 

Così non sarà. Nel 1989, dopo una lunga malattia, Busacca si spegne a Busto Arsizio in gravi difficoltà economiche e dimenticato da tutti.

 

Ciccio telefonò per dirci che moriva di fame, senza una pensione, gravemente malato, ci supplicava di aiutarlo. Coltello al cuore quel filo di voce, di quella che era stata la voce più vera di questa terra: come sentire un Dio che muore. Ci mobilitammo per aiutarlo, gli mandammo dei soldi, scrivemmo a La Volpe del TG2. Ma tutto tacque. Ciccio se ne andò lo scorso settembre e il quotidiano più noto dell’isola non ne diede la notizia [35].

 

Così il fratello Nino:

 

L’11 settembre del 1989 passò a miglior vita. I medici già dieci anni prima gli avevano detto di togliere la sigaretta: «Lei ha i polmoni come il catrame, se vuole vivere deve smettere di fumare». Pochi mesi prima che morisse andai a Milano: lo trovai con i tubi dell’ossigeno nel naso e la sigaretta in bocca[36].

 

Termina così la storia di Cicciu Busacca, lu cantastorie che «quannu canta lu cori vi spacca / e a li ricchi s’nficca[37]».

 

 



[1] Ringrazio la dott.ssa Francesca Busacca per avermi consentito di visitare la Casa Museo dei Cantastorie (gestita dal comune di Paternò) e per la preziosa consulenza fornitami nella verifica di episodi e aneddoti della vita di Ciccio Busacca talvolta riferiti in maniera imprecisa dalle fonti. L’Associazione culturale Cantastorie Busacca, da lei presieduta, svolge da anni un’importante attività di conservazione e diffusione in merito alla figura del cantastorie, dedicandosi inoltre all’attività di formazione e all’innovazione delle tradizioni popolari e della canzone popolare poetico-narrativa (www.cantastoriebusacca.it).

Ringrazio inoltre la Biblioteca etnografica G. Pitré di Palermo per avermi gentilmente fornito la riproduzione digitale del testo di N. Tomasello, Cicciu Busacca, cantastorie, ITI Cannizzaro, Catania 2002.

[2] C. Busacca, Comu canciari lu munnu, 1972.

[3] P. Calcagno (a cura di), Canto perché odio i ricchi. Intervista con Ciccio Busacca, cantastorie siciliano, ABC, 13/3/1975.

[4] Affermazione di Busacca contenuta nel documentario di Diego Bonsangue e Giovanni Isgrò, Il giullare in esilio. Autoritratto di Ciccio Busacca, 1983.

[5] Schema metrico: ABABCC – CDCDEE – EFEFGG…; cfr. F. Giuffrida, Salvatore Giuliano. Il mito cantato, in F. Renda, Salvatore Giuliano. Una biografia storica, Di Girolamo editore, Trapani 2020.

[6] Cfr. nota 4.

[7] In Sicilia, per tanti secoli e fino a un’epoca piuttosto recente, le sale da barba sono state importanti luoghi di ritrovo per musicisti. Cfr. S. Bonanzinga, I barbieri maestri di musica, in G. Pennino, G. M. Piscopo (a cura di), Musica dai saloni. Suoni e memorie dai barbieri di Sicilia, Nuova Ipsa, Palermo 2009.

[8] Nino Busacca, di otto anni più giovane di Ciccio, ricordava: «Un giorno mi scrisse una lettera: Caru Ninu, cunvinciti, sparici a lu zappuni, la chitarredda pigghiati e canta ‘gnuni ‘gnuni, portati la me machina, l’altoparlanti miu, ‘nta li chiazzi e prisentiti, comu ti dicu iu. Avvicinàti populu, sugnu Ninu Busacca, cantu sta bella storia, pirchì lu cori spacca. Sugnu frati, criditimi, di ‘ddu famusu arcanu, re di li cantastorii, ca si trova luntanu, mannau a stu frati picciulu, ppi diri a tutti pari, ca vi ricorda e vi manna a salutari.», L. Mirone (a cura di), Quando entrava il cantastorie, «L’informazione», 9 maggio 2020.

[9] Molto interessante la seguente esposizione in forma poetica del proprio metodo di lavoro: «Jennu girannu pi tutti li strati/ di zoccu vidu mi pigghiu l’appunti/ e poi cumpungu sti beddi raccunti/ e nta li chiazzi li vegnu a cantà», in C. Busacca, La moda di lu 1962, foglio volante; cit. in M. Geraci, Le ragioni dei cantastorie. Poesia e realtà nella cultura popolare del sud, Il Trovatore, Roma 1996, p. 138.

[10] Cfr. S. Nicolosi, L’impero del mitra, Longanesi, Milano 1975; Id., Di professione: brigante, Longanesi, Milano 1976; Id., Fuorilegge senza pietà, Longanesi, Milano 1978.

[11] L. Sciascia, La vera “storia” di Giuliano, 1963; in Id., La corda pazza, Adelphi, Milano 1991, p. 194.

[12] «[…] io comincio a lavorare e lui sotto di me mi guardava a bocca aperta, quando sono sceso dalla macchina m’ha detto: “M’hai fatto vedere il più grande spettacolo della mia vita. Ti porterò a Milano a cantare”. E io, sai, non ero mai uscito dalla Sicilia e sentivo parlare questo poeta che è veramente un grosso poeta, lo sentivo parlare così; io dicevo questo è pazzo, mi porta a Milano me, che non so neanche parlare neanche il siciliano…», G. Vezzani (a cura di), Incontro con Ciccio Busacca, «Il cantastorie», 44, n.s. 25, pp. 17-21.

[13] C. Levi, Le parole sono pietre, Einaudi, Torino 2010, pp. 130-157.

[14] M. Geraci, cit., p. 43.

[15] Cfr. nota 4.

[16] G. Vezzani (a cura di), cit.

[17] «Il siciliano Ciccio Busacca, di Paternò, vestito di nero, magro, allampanato e austero, l’unico cantastorie ancora munito del cartellone rozzamente dipinto a mano, in otto riquadri, vinceva la gara di canto dinanzi a una sceltissima giuria, di cui faceva parte anche Cesare Zavattini.», B. Rossetti, Mito e cronaca nel cantastorie moderno, Lares, vol. 24, n. 1-2 (gennaio-giugno 1958), pp. 124-128.

[18] E. Jona, M. L. Straniero (a cura di), Cantacronache. Un’avventura politico-musicale degli anni cinquanta, Crel-Scriptorium, Torino 1995, p. 24.

[19] R. Leydi, Storie di canti e di cantastorie, 1958. Di Busacca, il grande etnomusicologo scrisse: «Busacca è giovane, violento, animato da quel sacro fuoco diabolico che Garcia Lorca definisce “duende” e dice proprio dei grandi cuori di Spagna. Rappresentante perfetto del Mediterraneo, Busacca anima il suo gesto e la sua voce di una passione bruciante, più forte d’ogni regola e d’ogni legge.», R. Leydi, Gli ultimi cantastorie, «L’Illustrazione Italiana», febbraio 1959.

[20] Intervista contenuta nel documentario di S. Monelli, Ignazio Buttitta e i cantastorie siciliani, 2011.

[21] Negli anni Busacca, pur mostrandosi sempre riconoscente nei confronti di Buttitta e affermando di avergli voluto bene più di un padre, lamenterà l’eccessiva ingerenza nelle sue performance: «Lui pensava di aver da fare […] con un giocattolino a cui insegnava a muovere le mani.», cfr. M. Geraci, cit., p. 45.

[22] P. Calcagno (a cura di), cit.

[23] F. Busacca, cfr. nota 1.

[24] Cfr. nota 4.

[25] Piero Sciotto in Dario Fo, La giullarata, Bertani, Milano 1975, p. 13.

[26] Intervistato nel ’76 nell’aula magna dell’università di Catania, circondato da un gruppo di studenti, Busacca ricordava: «Conobbi Dario nel 1965 dopo una serie di disavventure personali. Mi colpì subito la sua profonda umanità e ci intendemmo immediatamente. Capii che avevamo qualcosa in comune e che avevamo capito entrambi la tragica realtà della condizione umana, con la sola differenza che lui ha avuto la fortuna di studiare, mentre io avevo conosciuto la vita solo attraverso dure esperienze. Mi resi conto che lui da intellettuale e da attore lottava per me, uomo», in G. Quasimodo (a cura di), Sono orgoglioso d’essere contadino e carrettiere, «L’espresso», 1976.

[27] Collettivo Teatrale La Comune, Introduzione in Ci ragiono e canto 3, Bertani, Milano 1973, p. 9.

[28] «… il padre fornaciaio a questa attività […] ne alternava un’altra […]: faceva il mago veggente nel passato, presente e futuro della gente nelle piazze dei paesi della Sicilia». P. Sciotto, cit., p. 9.

[29] Mauro Geraci, autore dello studio ad oggi più approfondito e documentato sull’argomento, mette in guardia dal voler rintracciare ad ogni costo filiazioni storicamente attendibili del mestiere del cantastorie, reputando più utile «ravvisare in chiave storico antropologica le analogie o le divergenze tra le istanze culturali presenti nei cantastorie meridionali e quelle individuabili nell’ambiente aedico dell’antica Grecia, nella poesia dei giullari e dei trovatori, nella Commedia dell’Arte e nella farsa carnevalesca, nel teatro e nella letteratura dialettale borghese, nella canzone narrativa di tradizione orale e nei repertori liturgici dei cantastorie orbi come nei cicli epici del teatro dei pupi e dei cuntastorie», cfr. M. Geraci, cit., p. 72 .

[30] A. Buttitta, Le “storie” di Cicciu Busacca, Annali del Museo Pitré, XIV-XV, 1963-1964, p. 124.

[31] Cfr. M. Geraci, cit., p. 61.

[32] Nino Busacca si ritira nel ‘93. Da allora in poi si esibirà solo in rare occasioni. Partecipa però nei panni di un cantastorie ai film Un sogno perso (1992) e Il giorno di San Sebastiano (1994) di Pasquale Scimeca.

[33] Reperibile su YouTube inserendo la chiave di ricerca «Cantastorie Cicciu Busacca – Intervista».

[34] Cfr. nota 4.

[35] Marilena Monti, La scomparsa di Rosa Balistreri, «Nuove effemeridi», III, 11 (1990), p. 229; riportato in M. Geraci, cit., p. 47.

[36] L. Mirone (a cura di), cit.

[37] C. Busacca, Lu bastardu (La storia di Minicu Cardiddu).