L’incanto del viaggiatore. Diari (1957-1967) e ricordi di un emigrante.
A cura di Luciano Morbiato, prefazione di Francesco Vallerani
Il Poligrafo, Padova 2020, pp. 321.€ 25,00
Recensione di Mauro Geraci
L’incanto del viaggiatore è il diario di Armando Morbiato (Albino per amici e familiari) che riporta ricordi di un emigrante, per certi aspetti simili a quelli di milioni di ragazzi italiani sin dall’Ottocento coinvolti nel lasciare l’Italia per andare all’estero in cerca di fortuna. Condizioni e narrazioni oggi note alla nutrita compagine di storici, sociologi, antropologi che le hanno sviscerate in una sterminata serie di studi critici. Tuttavia, sin dalle prime pagine, davvero diversi, particolari, originali, «incantevoli» risaltano i toni con cui Albino racconta la sua vicenda familiare, l’infanzia e l’adolescenza a Camin, tra contadini, artigiani, bottegai e le prime fabbriche tessili, mobili, calzaturiere del Padovano, e quindi il complesso delle vicissitudini che, nel 1957, l’avrebbero portato, a poco più di vent’anni, a intraprendere la mitica traversata dal porto di Genova fino all’Australia. Toni diversi da quelli dell’emigrazione italiana perché, a sostenerli, non è solo il “dramma” migratorio che pur vide Albino, sull’altro emisfero, valentissimo carpeniere e falegname in un amplissimo ventaglio di opportunità lavorative ma, anche e soprattutto, per il progressivo, amorevole appassionamento al viaggio che l’emigrante matura già in quella provincia segnata dalla miseria, dalla precarietà, dal fascismo, dalle lotte sociali, dalla guerra e dalla Resistenza, dalla sopravvivenza e da una indomita volontà di ripresa. Insomma sin dalle prime pagine del suo racconto autobiografico – quando, ad esempio, ricorda l’apprendistato dall’intagliatore Campaneo fino a Noventa, da Cacco, in quell’industriosa società popolare veneta; le prime, affascinantigite in bici e quelle in corriera che i patronati nel dopoguerra organizzavano per i ragazzi poveri, fino all’Anno Santo del 1950 e al pellegrinaggio a Roma dove nell’arco di Tito o nell’obelisco di Axum scoprì la storia come «oggetto concreto» - rintracciamo l’insieme delle variabili che, di lì a poco, tra il 1957 e il 1967, avrebbero fatto di Albino il protagonista di un percorso davvero raro e, per noi, pieno di spunti antropologici di riflessione. Un itinerario difficile a riassumere che dalla Val Padana e, quindi, dall’Australia, l’avrebbe poi portato, in soli dieci anni, in Indocina, in Cina, in Giappone e da lì, in treno lungo la transiberiana, nuovamente a Camin per ripartire, dopo un paio d’anni trascorsi in Svizzera e in Germania, a bordo di una Fiat Seicento per raggiungere Città del Capo attraversando tutta l’Europa orientale, la Bulgaria, la Turchia, l’Egitto, Suez, la Somalia, il Kenya e l’intera Africa subsahariana; quindi da lì a Londra per poi passare il mare fino al Canada e agli Stati Uniti, per scendere poi verso il Messico, l’Honduras, il Nicaragua, la Colombia, il Perù, il Brasile, l’Argentina,
le Americhe del Sud.
Sotto l’attenta cura del fratello Luciano Morbiato che li ha assemblati, integrati di testimonianze e memorie aggiuntive, corredati di ricche appendici che raccolgono le corrispondenze come i documenti, i visti, i permessi, le lettere di presentazione maanche le fotografie e le immagini prodotte lungo questa vera e propria Odissea contemporanea, i diari di viaggio di Albino costituiscono una fonte particolarmente preziosa per gli studi antropologici contemporanei. Anzitutto per i fatti che mette in fila dove i «ricordi di un emigrante» – la necessità e le condizioni di lavoro, l’adattamento, le difficili relazionalità, la precarietà, l’esclusione, l’alienazione – s’intrecciano eccezionalmente a quelli di un viaggiatore che, a poco a poco, si scopre tale “di mestiere” e così tenta di far propria la curiosità osservativa e, assieme, la forza introspettiva che fu dei più grandi, raffinati esploratori. Armando Morbiato, in altre parole, non annota solo occasioni e difficoltà di lavoro, paghe più o meno adeguate come le “stranezze” sociali, religiose, politiche, alimentari o consuetudinarie che incontra nei continenti culturali via via attraversati bensì, soprattutto, come queste si leghino al suo “puro” viaggiare. Un gusto profondo per tutto ciò che ruota attorno al transito che, nella quotidiana narrazione, ci appare costellato di ponti, coperte, cabine comodissime o invivibili, letti lindi o putridi, mari placidi sotto al sole e furibonde tempeste, rilassamenti e preoccupazioni, soste piacevoli o forzate ed estenuanti, riposi ottimali e stanchezze immonde, di ristoranti, cibi di strada e digiuni, di strade asfaltate come di pantani insormontabiuli, di dritte come di clamorosi errori di navigazione, di guasti e officine, di agevoli valichi di confine come di avvilenti attese alle frontiere. Queste interessantissime descrizioni delle condizioni del viaggio, ad esempio nei dialoghi e pensieri condivisi col fratello Francesco con cui ha compiuto l’attraversamento dell’Africa nera, costituiscono la vera e propria struttura portante dei diari di Armando Morbiato che, così, punta a un’antropologia del viaggio e non soltanto a quella dell’emigrante. A ciascuna di esse si lega un’interessantissima socialità che l’emigrante-viaggiatore non manca di ritrarre, appuntare, commentare spesso con poche, efficaci battute riflessive. Le circostanze del viaggio diventano così il pretesto per osservare e documentare circostanze socioculturali, tensioni, apartheid colte non in astratto bensì nel concreto di situazioni, necessità, pratiche realmente vissute in prima persona. Così a Oranjemund, per fare un solo esempio tratto dall’interessantissimo capitolo «Lavorare in Sudafrica»: «[…] ero addetto alla manutenzione, avevo un leading hand sudafricano e un aiutante, Tobias, un giovane di etnia ovambo del nord, che portava al polso un braccialetto di plastica, di colore rosso, perché era da cinque anni al servizio della compagnia. Un giorno mi accompagnò per alcune riparazioni che dovevo fare in una villetta dove abitava la famiglia di un dirigente (o un ingegnere), a un certo punto la padrona di casa mi chiese se volevo una tazza di tè e io feci un cenno anche per Tobias, lei capì e portò la tazza per me, prendendo da un armadietto quella per il mio compagno nero». Quelli di Albino non sono in questo senso taccuini derivanti da una pianificata ricerca etnografica ma formano un grande reportage dal campo o, meglio, dagli innumerevoli campi attraversati di cui riporta dialoghi, solidarietà, stereotipie, scontri, commenti sul cibo, i rapporti con gli albergatori, l’atteggiamento dei meccanici, le reazioni degli “indigeni” alle richieste di informazioni, le condizioni di lavoro, l’atteggiamento degli uffici coloniali, doganali o di polizia, in un quadro complessivo che ci restituisce un’immagine originale di un campo effettivamente poco studiato dagli antropologi professionisti: quello di un’emigrazione che, ieri come oggi, è mossa da un ventaglio di ragioni e spinte ben più ampio di quelle squisitamente dettate dalla fame. In questa prospettiva la nota battuta usata dal cantante folk Otello Profazio in Qua si campa d’aria a proposito degli emigranti meridionali - «[…] perché a noi del Sud ci piace viaggiare, conoscere altri paesi, l’America, l’Australia, la Germania, anche l’Italia… perché è brutta Milano? E Torino? Che ci manca a Torino? Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virrtute e conoscenza…» - perde molta della sua ironia. E L’incanto del viaggiatore rappresenta, invece, una narrazione importante per quel filone di studi antropologici che continua a indagare i rapporti tra turismo, patrimonio e società. Perché quello di Albino non è solo un viaggio tra i continenti ma tra i sentimenti cangianti, mutevoli, imprevedibili delle miagliaia di uomini e donne da lui incontrati lungo il tragitto: emigranti, turisti, camerieri, poliziotti, comandanti, funzionari, venditori, mariti, mogli, ragazzi, lavoratori, contadini e via via dicendo. Attenzione verso la sfera sentimentale avvertita e descritta negli altri ma anche colta in se stesso, in una sorta d’introspezione che trova uno dei suoi punti più commoventi nelle pagine dedicate alla breve vita con la moglie Emerenziana – 1968-1982 – anch’essa costellata di gite amorevoli e viaggi della speranza quale quello del ’76 in Tunisia, alla ricerca di un clima caldo che tuttavia non bloccò la tisi: così Emerenziana scrisse «sul retro di una cartolina con il Teatro greco di Taormina sullo sfondo dell’Etna: “Cara Antonella, è stata tutta una corsa per cercare il caldo. Ma purtroppo l’inverno c’è e si sentiva bene anche in Africa. Ti racconterò…”». Insomma un’attrazione verso il viaggio che, in un modo o nell’altro, non terminerà mai anche quando, dagli anni Settanta, Albino si stabilirà a Camin proseguendo la sua attività di falegname. Il titolo dell’ultimo capitolo - «la fine dei viaggi» - infatti corrisponde tutt’altro che alla fine di quelle che Albino definisce le sue, più che «crociere», «crociate». Le crociate proseguiranno in un percorso, per così dire, virtuale, parallelo, cartografico; percorso che porterà Armando Morbiato a diventare uno dei più importanti collezionisti e antiquari internazionali di carte geografiche antiche provenienti da tutto il mondo, di mappe, antichi libri di viaggio come di atlanti. Di questo percorso Albino, sotto l’attenta cura del fratello Luciano, ricostruisce ogni passaggio, la cronologia degli acquisti, dei venditori, dei mercatini e delle aste da lui assiduamente frequentati da acquirente o venditore, «senza perdere un solo giorno di lavoro in fabbrica. […] Vennero poi le mostre-mercato riservate ai professionisti e collezionisti: per anni sono andato a “Libri e stampe antiche” a Milano. Non mi sono mai dato arie, anche se quelle giornate erano la conferma che avevo il mio posto tra i professionisti: acquistavo sicuro di rivenderli, fogli importanti come i grandi cortei di Massimiliano d’Asburgo magnificamente incisi da Dürer o qualche cinquecentina come gli Adagi di Erasmo (Venezia, non quella di Manuzio), ma anche i due volumi delle Rime del Petrarca con l’esposizione di Lodovico Castelvetro (In Venezia /MDCCLVI/presso Antonio Zatta), che ho regalato a mio fratello letterato». Albino così ci conduce tra gli usi e costumi, credenze e pregiudizi, intese ed attese, amicizie, formalità, regole, non detti, strategie di questo mondo dei viaggi di carta dov’è possibile andare lontano nello spazio e indietro nel tempo. Un mondo che lui stesso definisce un «potlach» che si rinnova continuamente e che lo porterà ad acquisire una copia originale del preziosissimo Liber Chronicarum, la nota opera compilatoria di Hartmann Schedel, Le Cronache di Norimberga, scritta in lingua latina nel 1493. I diari si concludono con quelli del 1994, anno in cui Albino decide di compiereun’esperienza ancora originale, opposta a quella che corona spesso il persorso di vita degli emigranti: il ritorno in patria. Egli, al contrario, questa volta in aereo e non in nave, decide di tornare nei luoghi della sua emigrazione per raccontarci di una Sidney perduta, dove «non trovo le case dei Middleton, né quelle dei calabresi, al loro posto ci sono edifici in acciaio e vetro»; di un’Australia perduta dove quello che fu il suo itinerario di emigrante e, oggi, di viaggiatore viene disatteso dalle agenzie turistiche che non lo capiscono perché non è convenzionale, non rientra tra i «pacchetti», non fa tour. Così in questo continente o mondo perduto si metterà alla ricerca del «figlio perduto» dell’amico Severino Majkus: «Maxim ha raggiunto la madre australiana dalla natia Istria, per sfuggire all’arruolamento obbligatorio nell’esercito jugoslavo nei mesi tragici dell’implosione della repubblica federalista socialista, ma da tempo non risponde alle lettere del padre». Lo troverà nella scuola d’arte che frequenta, si farà raccontare delle sue giornate solitarie per poi far ritorno in Italia, nel suo studio pieno di antichità geografiche, libri antichi, trofei di viaggio (li chiamerebbe l’antropologo Duccio Canestrini in un’originale monografia sui souvenir), a rimettere insieme le parole dette e cantate «assieme ai compagni di lavoro in Australia, in Germania o di viaggio in Borneo, in Rhodesia, in Perù, molti anni fa, tra sessanta e quaranta». Tornerà nel suo studio alla ricerca del tempo perduto, a riascoltare li vuci di l’omini, direbbe il grande poeta-cantastorie siciliano Ignazio Buttitta in un’altra straordinaria poesia sull’emigrazione, a inseguire la canzone di cui sono autori tutti gli uomini o poeti del mondo.
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