Carlo Audello

 

 La Müsica 'd Mumbarìs (La Banda di Mombaruzzo 1877-1960). Musica popolare e immagini di vita paesana del Monferrato nella prima metà del '900, Acqui Terme, Impressioni Grafiche, 2016, pp. 88 (cd allegato), euro 15.

 

         

 

Un affascinante libro di Carlo Audello, con tanto di disco annesso frutto delle trascrizioni a memoria di 18 arrangiamenti di musica per banda, ascoltati fin dalla sua infanzia dagli ultimi musicanti della Banda di Mombaruzzo, compreso il padre trombettista. Gli arrangiamenti ricostruiti, le cui partiture sono andate pressoché totalmente perdute, sono opera del Maestro Pieve, che, ritornato in paese dopo l’esperienza nell’Orchestra Filarmonica di New York alla fine del 1800, aveva preso le redini della Banda, trasformandola in una formazione di tutto rispetto. Le melodie originali invece sono per lo più di tradizione orale, a parte qualche composizione del Pieve che era un ottimo compositore per banda. La ricerca di Carlo Audello non trascura l’importanza del contesto, ricostruendo per filo e per segno le funzioni e i luoghi dove questa musica veniva eseguita. Una musica che rievoca, attraverso i ricordi dell’autore, le comunità monferrine, dimostrandosi un modello che “potrebbe essere adattato ad una qualsiasi comunità paesana del Monferrato”. Un libro che ben si accosta alle registrazioni dell’americano Alan Lomax effettuate nel Monferrato durante la vendemmia del 1954, dove spiccano tra i brani strumentali quelli eseguiti dalla storica “Bersagliera” di Tonco (AT).

 

Si cantava in tutti i bar intorno alla piazza, e quando eravamo stanchi di registrare un ballo portavamo il microfono in un altro bar. L’unico vero problema a Tonco era riuscire a rifiutare tutto il vino che questa gente generosa ci offriva, in modo da poter continuare a registrare … In Italia la grande festa autunnale della raccolta è la vendemmia. Il vino è spremuto non appena i grappoli sono portati in cantina. I lavoratori ne hanno una parte, e cantano con le bocche macchiate di viola, non di santi ma di belle ragazze… “Dove vai, bella mia…” – “Dove mia madre mi ha detto di andare”, risponde lei timidamente. (Testimonianza di Alan Lomax nel volume L’anno più felice della mia vita a cura di Goffredo Plastino, pp. 184-186)

 

Quando la televisione non esisteva e gli apparecchi radio erano un lusso concesso alla classe abbiente, la Banda rappresentava per molti l’unica possibile fonte di musica strumentale. Per i mombaruzzesi infatti la Banda“era la Müsica” nel vero senso della parola: aveva preso il nome di “La Müsica 'd Mumbarìs”. Anche mia nonna, cresciuta tra le case del Cristo (che allora era una frazione di Alessandria) prima di dover sfollare per i bombardamenti, ricorda che tutti i bambini del cortile di Via Gavigliani quando sentivano in lontananza la Banda correvano felici a vederla sfilare per Corso Acqui. Federico Fellini e pochi altri sono riusciti a trasmettere la magia di queste apparizioni “della Musica”, quando la riproducibilità tecnica non aveva preso ancora il sopravvento. I ricordi di Carlo Audello, pieni di poetica nostalgia, sono un magnifico Amarcord di una vita comunitaria semplice e genuina, dove, citando i racconti d’infanzia di Nanni Svampa, “la vita si svolgeva tranquillamente tra i campi, la casa e l’osteria”. Non ci si immaginava minimamente come sarebbe andata a finire trasferendosi in città…

 

Gente in amicizia per la strada oppure sull’uscio di casa a dialogare con i vicini, ragazzini scorrazzanti, nessuna macchina, molti presenti in piazza, quali in piedi, quali seduti sulle panche in granito davanti al Municipio come pure “an‘s la banca u’d Marèng” o sugli scalini di “Bastiàn el barbé” e davanti a “Cà 'd Bôra”, un robusto brusio di voci in sottofondo… qualsiasi muretto poi, era buono per sedercisi sopra in compagnia, per non parlare dei “Toc”, grossi tronchi lunghi alcuni metri, stesi a terra e accostati ad un muro sui quali si passavano, conversando, le serate estive nei diversi rioni (p. 19).

 

Rapidi e intensi ritratti del tempo che fu restituiscono valore a una musica semplice ma diretta, comunicativa e passionale, che negli ultimi anni è stata travisata dal grande carrozzone del “ballo liscio” suonato in playback.

 

La luna, tra il campanile della “Maddalena” e la torre, illuminava la piazza; la Müsica (così veniva chiamata la Banda, essendo l’unica fonte di musica del paese), raccolta in cerchio davanti alla “butèga ‘d Laidén”, suonava un valzer in minore, ricco di sentimento pur nella sua apparente semplicità: loro lo rendevano accorato, quasi struggente, perché la notte era molto bella e dovevano accompagnarla così (p. 20).

 

Trattasi della stessa luna che illuminava le notti di Santo Stefano Belbo, quando Nuto, l’amico di Pavese, faceva ballare la gente al suono del suo clarinetto.

 

Quando ancora la televisione e la radio non avevano “saturato” le orecchie dei mombaruzzesi, il suono di una tromba, anche nel cuore della notte, manteneva un “alone di magia”, e l’esperienza del risveglio notturno dovuto a qualche musicista nottambulo doveva essere tutt’altro che disturbante.

 

Io poco più che decenne, ero l’unico spettatore: mio padre suonava la tromba e, vedovo da poco, mi portava quasi sempre con sé. Ma non ero certamente l’unico ascoltatore: il paese contava quasi 3000 abitanti e le case erano piene. Negli anni però nessuno si è mai lamentato per quei risvegli e non erano infrequenti le richieste di bis dalle finestre, quando addirittura qualcuno non scendeva in strada con bottiglie e bicchieri a offrire loro da bere (ibidem).

 

La musica accompagnava i momenti più importanti della vita comunitaria: “cerimonie civili e religiose, funerali, commemorazioni, feste di leva, concerti in piazza, feste private e soprattutto feste da ballo”.Il ballo senza dubbio merita un’attenzione particolare perché rappresentava per la vita del paese il rituale più importante: esso era la principale forma di corteggiamento che avrebbe garantito la rigenerazione della comunità. Se non fosse esistito il ballo a palchetto probabilmente non sarei qu are prima del fidanzamento ufficiale. Suonando da ballo inoltre, “le parti non sono così rigorosamente determinate e molto viene lasciato all’estro individuale”. È qui che i fratelli Calàn e Gianulòn, veri talenti naturali della Banda di Mombaruzzo, uno clarinettista orecchiante e abile improvvisatore, l’altro polistrumentista, “potevano sbizzarrirsi, galvanizzando anche gli altri”;  è qui che Gianni Coscia ha incominciato a sperimentare le prime variazioni sul tema che presto sarebbero diventate improvvisazioni jazzistiche.

 

Il ballo a palchetto era una struttura interamente in legno, affittata ed assemblata sul posto da un paio di ditte specializzate, costituita da una pista quadrata (raramente circolare) di circa 15 metri di lato, con un piantone al centro che reggeva un tendone variopinto a copertura totale del ballo. La pista era chiusa ai lati da una cintura modulare, i “rasté”, che reggeva all’interno una serie di panche sulle quali i ballerini si sarebbero potuti riposare se non fossero state occupate in prevalenza da donne non più in età da marito che, oltre a sorvegliare le figlie, si industriavano strenuamente a scoprire la nascita di nuove simpatie e a pronosticare future unioni… (p. 45)

 

Finita la guerra poi, la musica ha accompagnato un bellissimo momento di festa collettiva, e mentre un Gianni Coscia appena adolescente veniva coinvolto a imbracciare la fisarmonica nelle piccole orchestrine improvvisate nei cortili di Alessandria, a Mombaruzzo “un corteo - sorto spontaneamente, accompagnato dalla Müsica e partecipato da chiunque volesse, perpetuatosi per alcuni giorni e svoltosi nella più completa e festosa confusione – si snodò per vie e contrade sconfinando anche nei paesi vicini, vagando senza meta, sostando nei punti strategici, passando in casa di chi li fermava”. (p. 20) La voglia di ballare e festeggiare era talmente sfrenata che il padre di Carlo Audello (come anche Gianni Coscia ad Alessandria), “fu quasi obbligato a suonare” (p. 21). Di rilievo è stata poi la presenza della Força Expedicionaria Brasileira nelle truppe alleate, che Coscia ricorda di aver visto esibire forse nella prima esecuzione europea del celebre brano Aquarela do Brasil in piazza Rattazzi: “fu proprio dal canto dei soldati brasiliani” che i membri della Banda di Mombaruzzo “impararono il motivo tradizionale Cielito Lindo … trasformandolo poi inevitabilmente in un irresistibile valzer monferrino” dal titolo El Brasilian. (p. 23).

 

Da questo momento in poi, nonostante il tentativo di adeguamento alle musiche più moderne -“arrivando a un repertorio comprendente – oltre ai classici valzer, mazurche e polche – anche tanghi, fox-trot, one step, paso doble, giave e canzoni, specie se di successo e ballabili” (p. 26) -, il radicale mutamento sociale del dopoguerra e le illusioni del sogno americano, fecero sì che la Banda “si trovò a rappresentare il vecchio … e la Musica, divenne el Müsicòn” (p. 27). Lo stesso Gianni Coscia a quei tempi, volendo suonare il jazz con la fisarmonica (riproponendo peraltro una modernissima rielaborazione jazzistica di un valzer del celebre Gian Frumento, direttore della Banda di Incisa Scapaccino), veniva aspramente criticato da coloro che associavano questo strumento alla musica da balera, considerata una musica arretrata (si dovette addirittura inventare una custodia rigida a forma di parallelepipedo per nascondere la forma dello strumento!). In questo difficile clima, la sopravvivenza della Banda di Mombaruzzo fino al 1960, anno del suo scioglimento, è dovuta alla buona volontà di don Galletto, che “offrì un locale nell’Asilo infantile per la Scuola di Musica e si sforzò di farla vivere quasi ad ogni costo” (p. 29).

 

Li ascoltai l’ultima volta in un tardo pomeriggio estivo davanti alla Canonica di S. Antonio, dove si era conclusa una processione; stavano attendendo don Galletto che, sempre, offriva loro un rinfresco… Mio padre mi vide in lontananza; sapendo che mi piaceva moltissimo un valzer – un loro motivo di una semplicità disarmante e per questo di linea purissima, uno di quei motivi che vanno diritti al cuore – lo intonò, me lo suonarono. Non li sentii più (ibidem).

 

Se oggi, nonostante l’evoluzione tecnologica, il livello della musica da ballo giovanile è sceso nel profondo baratro dei rave party - dove la competenza musicale è stata sostituita dalla potenza musicale delle casse altoparlanti e al vino del contadino, il giovane raver preferisce l’anestetico per cavalli -, nella dispersività delle grandi realtà urbane esistono ancora realtà tangibili in cui il ballo rappresenta un vero momento di aggregazione e condivisione, dove insomma il livello di droga in corpo non è così alto da impedire ogni contatto con il mondo esterno in un paradossale “ritrovo della perdizione”. Camminando qualche anno fa per il centro di Torino, mi sono imbattuto nella notte in un enorme gruppo di suonatori e danzatori che riempivano l’intera Galleria San Federico di Via Roma. Avrebbe potuto trattarsi di una di quelle leggende medievali in cui dopo aver ballato e gioito tutta la notte, mi sarei poi risvegliato nudo su un orcio di vino in un vuoto scantinato della Lombardia, e invece sono più volte tornato a ballare la mazurka con questo inaspettato collettivo di simpatici amici. Ed è forse qui, che per un attimo, ho compreso il significato profondo della Müsica 'd Mumbarìs.

 

info: Carlo Audello: augicado@tin.it]

 

RECENSIONE DI PIETRO ARIOTTI

 

IL LIBRO CON ALLEGATO CD E' REGOLARMENTE IN VENDITA E REPERIBILE NELLE MIGLIORI LIBRERIE  O ANCHE SU RICHIESTA

AL COMUNE DI MOMBARUZZO mail
protocollo@comune.mombaruzzo.at.it