PER VITO SANTANGELO – IL CANTASTORIE CHE NON MUORE MAI
di Mauro Geraci
Una volta Vito Santangelo, proprio quel giorno in cui decise di consegnarmi il manoscritto de La mia vita di cantastorie, autobiografia che poi pubblicammo nella collana testi della rivista antropologica La ricerca folklorica, mi disse che in fondo nella morte non tutto è negativo come s’è portati a pensare. “Ma che dici? – gli dissi subito – La morte è oscena! Che cosa vuoi dire?” “Voglio dire – rispose sorridendo – che quando una persona muore, certo, la vedi di meno ma, per molti aspetti, la senti e la capisci di più. La morte allontana per un verso e avvicina per un altro. Vedi – mi disse – il mio caro padre, ad esempio, lo sento più vicino ora che è morto, nella mia testa e nel mio cuore, rispetto a quando era in vita. La morte uccide il corpo, l’immagine ma aiuta la poesia”. Questo pensiero mi lasciò senza parole. Poi però capii come Vito, che già conoscevo da circa dieci anni, vivesse in un suo mondo poetico tutto suo, tanto più intenso e gravido di figure quanto più alimentato dalla morte il cui potere nullificante, nelle sue stesse parole, sembrava ridursi fino a svilirsi del tutto. Al punto tale che il protagonista della sua Tragedia dell’uomo avaro, quando alla fine muore finisce per produrre negli ascoltatori una sorta di rimpianto, nonostante le restrizioni e prepotenze che aveva imposto alla sua famiglia, entro una dimensione poetica in cui il poeta-cantastorie Vito Santangelo sembra contemplare dall’alto in basso un po’ tutti, un po’ come facevano gli dei dell’Olimpo con gli uomini piccoli piccoli dell’antica Grecia. Così una volta prima di cantare nell’antichissimo teatro greco di Tindari, vicino Messina, Vito con quest’altissima naturalezza poetica stava per fermare con una grossa pietra che stava per prendere dalle rovine del proscenio un cartellone che svolazzava al forte vento marino, reso celebre da “Vento a Tindari” di Salvatore Quasimodo, sommo poeta del resto sensibilissimo ai cantastorie siciliani, da Ignazio Buttitta a Orazio Strano. Ma non fece in tempo. L’organizzatore del concerto dall’alto della gradinata gli gridò immediatamente: “ Vitooo, ma che fai, non toccare… non ti rendi conto di quello che stai facendo? La soprintendenza ci arresta… è una pietra del IV secolo a.C. su cui molto probabilmente si è seduto Euripide!”
Ora che è morto, la sua mancanza produce nella prospettiva poetica mia e di Fortunato Sindoni, cantastorie che era anche lui a Tindari e che come me ha avuto modo di conoscerlo bene e lavorarci a fondo, una presenza di Vito ancora più luminescente che sovrasta il forte dolore. L’avevamo visto un mese prima di morire immobile, sul letto di un ospizio ma lucidissimo, luminosissimo e ci disse: “Portatemi via di qua.. ora mi strappo questa flebo dalla mano e vengo con voi… vi pago, vi pago e anche bene!”. Ma non lo potevamo fare uscire, non stava più in piedi, e poi lui era già fuori e ancora lo è da quella tomba d’ospedale dove, diceva, le infermiere erano diavoli dell’inferno quando lo sollevavano e piegavano per pulirlo, con dolori micidiali. Vito era già fuori con noi e man mano che la morte s’avvicinava la sua pelle si sfogliava come i suoi foglietti volanti con su inscritte storie in musica e poesia che ancora sparge a tutti, tra le ventose piazze, dove il cantastorie non muore mai.
Mauro Geraci
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